In Italia, parlare di lavoro significa parlare di identità. Significa raccontare chi siamo, da dove veniamo e, soprattutto, dove stiamo andando.
La cultura lavorativa italiana è sempre stata sospesa tra due poli: il valore quasi sacrale attribuito alla fatica – eredità di una società contadina e poi operaia – e la tensione verso una maggiore qualità della vita, che si è fatta più urgente con l’arrivo delle nuove generazioni. È una dicotomia che non si è mai veramente risolta.
Il posto fisso, una volta simbolo di stabilità e rispetto sociale, oggi è percepito da molti giovani come una gabbia. Non perché manchi il desiderio di sicurezza, ma perché si avverte la necessità di libertà, di significato, di equilibrio. Eppure, chi ha 50 o 60 anni fatica a comprendere questa visione. Perché per chi ha attraversato le crisi del ‘92, del 2008, del 2020, il lavoro è ancora sinonimo di sopravvivenza. Questo scarto generazionale alimenta incomprensioni che non possiamo più ignorare.
L’Italia si trova oggi in una condizione paradossale: da un lato, aziende che non trovano personale qualificato; dall’altro, giovani e meno giovani che si sentono esclusi o disillusi. Non è solo un problema di competenze, è un problema di senso. Non stiamo parlando solo di lavoro, ma di vita lavorativa.
La pandemia ha scardinato molte certezze, rendendo visibile ciò che era già in crisi: la centralità dell’ufficio, il valore delle ore passate in azienda, l’idea che “prima il dovere e poi il piacere” debba valere a ogni costo. Eppure, la reazione a questo scossone è stata schizofrenica. Alcune imprese hanno abbracciato il cambiamento, altre lo hanno subìto o, peggio, rifiutato. In troppe, dopo i vari proclami, hanno fatto diretrofront.
Ma se c’è una cosa che ho imparato è che le persone vogliono lavorare. Vogliono farlo bene, con dignità, con motivazione. Non è vero che i giovani non vogliono impegnarsi: vogliono solo farlo in un contesto che li rispetti, che li ascolti, che li valorizzi.
È ora di uscire dai luoghi comuni e costruire un nuovo patto sociale. Un patto che riconosca il valore del lavoro ma anche quello della salute mentale, del tempo libero, della formazione continua. Un patto che restituisca dignità a chi lavora in settori sottopagati e invisibili. Che sappia dire che il benessere organizzativo non è una moda, ma una necessità.
L’Italia ha le risorse umane, culturali e creative per guidare questa trasformazione. Ma serve coraggio. Coraggio di innovare davvero, di ascoltare tutte le voci, di lasciarci alle spalle la nostalgia del “si stava meglio quando si stava peggio” e guardare avanti con lucidità.
Perché il futuro del lavoro in Italia non sarà scritto solo da economisti o politici. Sarà scritto da ciascuno di noi, ogni giorno, nei nostri uffici, nei laboratori, nei campi, nei negozi, nei coworking, nelle scuole. E il primo passo è ripartire da una domanda semplice ma rivoluzionaria: “Perché lavoriamo?”
Solo quando sapremo dare a questa domanda una risposta condivisa, autentica e umana, potremo davvero dire di aver cambiato il nostro modo di lavorare. E forse, anche il nostro modo di vivere.