Il lavoro moderno: democrazia fuori, totalitarismo dentro

C’è una frase di Noam Chomsky che ritorna alla mente come un mantra dissonante, soprattutto nei lunedì mattina stipati nelle carrozze della metropolitana, tra corpi compressi e sguardi svuotati:
“La maggior parte delle persone trascorre tutta la propria vita al lavoro, che è un vero e proprio sistema totalitario.”

A prima lettura può sembrare una provocazione intellettuale, una di quelle iperboli utili a scuotere le coscienze. Eppure, quanto più la si interroga, tanto più rivela un nucleo scomodo di verità: il lavoro, per come è strutturato nelle economie capitalistiche avanzate, non è solo un’attività produttiva. È un habitat normativo, una forma di governo, una pedagogia dell’obbedienza.

Viviamo in Stati che si definiscono democratici e pluralisti, dove le libertà individuali sono scolpite nelle carte costituzionali e nei trattati internazionali. Ma tali garanzie sembrano dissolversi all’ingresso degli ambienti di lavoro. La soglia dell’ufficio, spesso, è anche la soglia simbolica oltre la quale la cittadinanza si sospende. Non si elegge il proprio superiore. Non si discutono le regole. Il potere è verticale, difficilmente negoziabile. E chi prova a farlo è subito classificato come “non allineato”, “problematico”, “poco professionale”.

Chomsky ha definito le imprese come “strutture di comando gerarchico”, paragonabili a governi autoritari nei quali il dissenso è implicitamente scoraggiato. Il CEO come sovrano, i manager come nobiltà operativa, le HR come corpo disciplinare. Questo parallelismo non è solo retorico: nelle aziende, il codice comportamentale, il lessico autorizzato, perfino l’abbigliamento, sono forme di micro-regolazione identitaria. È ciò che il sociologo Erving Goffman avrebbe definito una istituzione totale soft: un contesto in cui ogni aspetto della soggettività viene, più o meno sottilmente, incanalato.

Il contratto di lavoro moderno non è un semplice patto economico. È una cessione temporanea (ma reiterata) di autonomia. Si accetta di essere valutati, monitorati, corretti. Si firma, spesso inconsapevolmente, un’adesione a un ethos: la “cultura aziendale”, termine che oggi funge da dispositivo ideologico per promuovere conformismo emotivo e coerenza valoriale con l’organizzazione. La libertà, in questo contesto, è spesso limitata a scelte accessorie: la marca del computer, il colore della sedia ergonomica, lo snack nella cucina condivisa.

Ma il problema non è la disciplina in sé – ogni forma di cooperazione richiede coordinamento – bensì la dissimulazione del potere. Oggi le aziende non impongono con la frusta, ma con il sorriso. Non minacciano, motivano. Il paternalismo ha preso il posto dell’autoritarismo, e la retorica della “famiglia” aziendale – spesso usata nelle startup e nei colossi tech – finisce per ridefinire il lavoratore come devoto, più che come dipendente. Le critiche diventano tradimenti, l’autonomia uno scarto dall’identità collettiva.

Certo, esistono tutele giuridiche, contrattuali, sindacali. Ma il potere reale si esercita altrove: nella gestione dei turni, nelle email inviate fuori orario, nei KPI che trasformano ogni attività in performance da ottimizzare. L’employee experience è spesso una sofisticata macchina narrativa che anestetizza il senso critico. E nel frattempo, strumenti di monitoraggio sempre più sofisticati – dall’analisi comportamentale al tracciamento digitale – ridefiniscono i confini del controllo.

La vera questione, allora, non è se lavorare sia giusto o sbagliato. È se possiamo continuare a ignorare le implicazioni politiche e antropologiche dell’organizzazione del lavoro così com’è. Possiamo dirci cittadini liberi, se per otto o dieci ore al giorno viviamo in strutture che negano i principi stessi della democrazia?

Non si tratta di auspicare una rivoluzione anarchica o di romanticizzare la fuga dalla produttività. Il lavoro è, e resta, una dimensione fondamentale dell’identità e della coesione sociale. Ma è urgente ripensarlo in termini di giustizia relazionale: una forma di cooperazione tra adulti liberi, non un sistema di addomesticamento travestito da meritocrazia.

Riconoscere questo significa abbandonare il fatalismo per tornare a interrogare la realtà. Significa smettere di accettare, come naturale, che la professionalità implichi la rinuncia sistematica a parti fondamentali di sé: il tempo, l’energia, la possibilità di dire “no” senza temere ripercussioni.

Noam Chomsky non ci offre soluzioni, ma ci indica una via: quella della disobbedienza mentale, del rifiuto dell’abitudine come giustificazione.
Finché il lavoro sarà un luogo dove si esercita il potere senza trasparenza, senza legittimazione democratica e senza reciprocità, continueremo a vivere in un paradosso: cittadini a tempo parziale, e sudditi a tempo pieno.

La vera emancipazione comincia dove si smette di accettare la necessità come destino.
E il lavoro, se vuole restare umano, dovrà smettere di essere una forma moderna di servitù volontaria.

Photo credit: Wikimedia Commons

Add a comment

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *