Settimana corta, benessere lungo: la rivoluzione del lavoro in 4 giorni è davvero sostenibile?

L’idea di una settimana lavorativa di quattro giorni, per anni relegata a un’utopia da nord Europa, sta lentamente guadagnando attenzione anche in Italia. In un’epoca in cui il benessere psicosociale dei lavoratori è sempre più centrale, la possibilità di ridurre l’orario settimanale senza intaccare lo stipendio rappresenta una delle sfide più ambiziose — e discusse — della trasformazione del lavoro.

Tutto parte da un esperimento islandese che ha fatto scuola. Tra il 2015 e il 2019, Reykjavík ha testato su circa 2.500 lavoratori (più dell’1% della forza lavoro del Paese) una settimana da 35-36 ore. I risultati, pubblicati dal think tank britannico Autonomy e dalla Icelandic Association for Sustainable Democracy (Alda), hanno mostrato un aumento o mantenimento della produttività, a fronte di miglioramenti significativi nel benessere dei dipendenti. Da lì, il modello è stato adottato o studiato anche in Regno Unito, Spagna, Giappone e Nuova Zelanda.

In Italia, il dibattito è meno strutturato, ma inizia a muoversi. Tra le prime aziende ad aver sperimentato concretamente la settimana corta c’è Carter & Benson, società milanese di executive search, che dal 2022 ha adottato la formula del venerdì libero per tutti i dipendenti. In un’intervista rilasciata a Forbes Italia (luglio 2022), il CEO Sandro Castaldo spiegava così la scelta: “Abbiamo ritenuto necessario dare un segnale concreto di attenzione al benessere. E i risultati ci danno ragione: le persone sono più motivate, più presenti, più serene”.

Ma al di là di casi singoli, quanto è davvero applicabile questo modello nel tessuto produttivo italiano, fatto soprattutto di PMI e aziende manifatturiere? La risposta, secondo molti esperti, è: non senza una ristrutturazione profonda.

Eppure, il contesto sembra favorevole. Secondo un sondaggio Ipsos del 2023, il 74% dei lavoratori italiani si dice favorevole alla settimana corta, anche a parità di salario. A conferma di una crescente insoddisfazione per un modello lavorativo percepito come inefficiente e invadente nella sfera privata. Ma serve un segnale anche a livello normativo. A oggi, in Italia, il contratto collettivo nazionale prevede una settimana da 40 ore, con alcune deroghe. Un primo passo verso la flessibilità potrebbe arrivare da una revisione concertata dei contratti di categoria.

Nel frattempo, il tema ha fatto breccia anche nel discorso politico. L’europarlamentare Elly Schlein ha dichiarato in più occasioni la necessità di “investire nella qualità del lavoro, riducendone l’intensità e migliorandone le condizioni”, anche tramite la settimana corta, come ribadito in un’intervista a La Repubblica (gennaio 2024). Più cauto il governo, che ha però avviato un tavolo tecnico con le parti sociali per valutare nuove formule di flessibilità oraria, soprattutto in ambito pubblico.

Il rischio principale, avvertono molti osservatori, è che la settimana corta si traduca in una compressione malsana dei carichi. Se il lavoro di cinque giorni viene semplicemente spalmato su quattro, senza strumenti di ottimizzazione, si rischia l’effetto contrario: più stress, meno efficienza. C’è quindi bisogno di una transizione “intelligente”, supportata da tecnologia, formazione, leadership partecipativa e strumenti di misurazione del valore reale generato. In questo senso, la settimana corta è un simbolo potente di un cambiamento più grande: un passaggio da un’economia del tempo a un’economia del senso.

Sotto la superficie, infatti, si muove una domanda più radicale: quanto tempo ci serve davvero per vivere bene? E siamo disposti, come società, a ripensare la struttura del lavoro — e della vita — per riconquistarlo?

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