Ipocrisia generazionale: La memoria corta di chi accusa i giovani

Viviamo un’epoca segnata da profonde fratture generazionali. Da un lato, una narrazione insistente e corrosiva descrive i giovani come svogliati, incapaci di fare sacrifici, allergici alla fatica e perennemente insoddisfatti. Dall’altro, un’analisi più onesta – e decisamente più scomoda – mostra che molte delle fragilità del presente non nascono da un deficit di etica lavorativa giovanile, ma affondano le radici nelle scelte di chi oggi li giudica.

C’è un’evidente contraddizione storica nel rimprovero che una parte della generazione del boom economico – quella che ha vissuto l’età dell’oro della crescita, della stabilizzazione e della spesa pubblica allegra – muove alle nuove generazioni. È la stessa generazione che, negli anni Settanta e Ottanta, ha assistito senza fiatare (e spesso ha contribuito attivamente) al consolidarsi di pratiche che oggi condannano i giovani alla precarietà: pensionamenti anticipati, congedi reiterati per motivi discutibili, assunzioni clientelari, sprechi sistemici e una visione dello Stato più come strumento di rendita che come bene comune.

Pensioni d’oro e il paradosso del “lavorare meno”

Chi oggi invoca il ritorno al “lavoro vero” dimentica di essere parte di una stagione in cui si è andati in pensione anche a 45 anni, grazie a regole costruite su una logica demografica ormai irrealistica. Il concetto stesso di “prepensionamento”, nato in teoria per favorire il ricambio generazionale, è stato spesso sfruttato in maniera opposta: si è favorito il ritiro anticipato dei lavoratori anziani senza creare opportunità vere per i giovani.

Il risultato è un sistema pensionistico sempre più sbilanciato, dove chi ha lavorato per 20 o 25 anni gode oggi di trattamenti superiori rispetto a chi ne lavora 40 in condizioni di intermittenza, contributi discontinui e stipendi erosi. È questa la grande ferita che attraversa la nostra società: non solo una diseguaglianza economica, ma una vera e propria ingiustizia intergenerazionale.

Le cure termali come diritto, il lavoro stabile come privilegio

Un altro emblema delle storture del passato è la gestione disinvolta delle assenze lavorative. C’è stato un tempo in cui il congedo per “cure termali” era prassi ordinaria, giustificata e protetta. Un diritto, si diceva. Eppure, oggi i diritti veri – quelli che riguardano la sicurezza sul lavoro, i contratti stabili, la protezione sociale – sembrano invece essere diventati un privilegio, riservato a pochi fortunati.

Questa cultura dell’abuso, legittimata da anni di silenzi politici e complicità sindacali, ha contribuito alla percezione distorta del lavoro come merce di scambio e non come valore. E oggi chi ha beneficiato di quel sistema, spesso senza mai metterlo in discussione, addita con superficialità chi si affanna in tirocini sottopagati, contratti a termine, gig economy e false partite IVA.

Il clientelismo: una ferita ancora aperta

Ma la più grave responsabilità è forse culturale. Negli anni d’oro della Prima Repubblica, il posto fisso non era solo un sogno legittimo, era spesso il frutto di una chiamata, non di un concorso. La politica era l’ascensore sociale, non il merito. Le carriere si costruivano sulle relazioni, non sulle competenze.

Questa mentalità – quella del “sistemarsi” – ha creato una società dove la stabilità personale era spesso ottenuta a scapito della sostenibilità collettiva. E chi ha beneficiato di quel modello, oggi stigmatizza i giovani che cercano all’estero ciò che non trovano in Italia: opportunità, meritocrazia, rispetto.

Oltre la retorica: serve un patto generazionale vero

L’Italia non potrà ripartire davvero finché continuerà a guardare i suoi giovani come un problema, e non come una risorsa. Non c’è bisogno di un generico elogio della gioventù, né di una condanna cieca del passato. Serve una verità storica condivisa, capace di riconoscere che i giovani di oggi non sono sfaticati: sono spesso più formati, più flessibili, più globali dei loro predecessori. Ma sono stati lasciati soli.

La classe dirigente di ieri ha beneficiato di un sistema che oggi non esiste più – e ha contribuito attivamente alla sua erosione, scaricandone le conseguenze su chi oggi entra nel mondo del lavoro con prospettive deboli, tutele labili e un futuro pensionistico nebuloso.

Un Paese serio avrebbe il coraggio di riconoscerlo. E comincerebbe a costruire un vero patto generazionale, basato non su narrazioni moralistiche, ma su riforme strutturali: equità fiscale, riforma del welfare, accesso al lavoro basato sul merito, valorizzazione della formazione continua. Non è più tempo di retorica: è tempo di responsabilità.

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