Il valore dell’errore: come e perché dovrebbe essere celebrato.

Viviamo un’epoca in cui l’errore non è più tollerato. Anzi: è patologizzato, isolato, stigmatizzato. Come se fosse una malattia da nascondere, una contaminazione da espellere. Eppure, nulla è più universale dell’errore. Lo commette l’algoritmo – e lo chiamiamo “hallucination” – lo commette il CEO di una multinazionale, lo commettono decine di milioni di persone ogni giorno. Ma nonostante ciò, continuiamo a trattarlo come un fallimento morale, come se sbagliare fosse una colpa da espiare piuttosto che una tappa fisiologica dell’agire.

Il risultato è paradossale: viviamo in sistemi sempre più complessi, ma pretendiamo da noi stessi prestazioni meccaniche, infallibili, deumanizzate. È un cortocircuito culturale. E ci sta costando molto.

L’errore come chiave di lettura dei sistemi

La verità è che ogni organizzazione sana, se davvero aspira a migliorarsi, dovrebbe considerare l’errore come una finestra critica sul proprio funzionamento interno. Un’occasione per osservare da vicino ciò che non è stato progettato con sufficiente cura, ciò che non regge sotto stress, ciò che ha bisogno di essere rivisto o ripensato.

Ogni errore, quando analizzato con onestà, porta con sé un’indicazione precisa su un punto di debolezza del sistema. Può trattarsi di un processo inefficiente, di una responsabilità mal distribuita, di un’aspettativa non allineata, di una formazione inadeguata. Più che un imprevisto, è una spia accesa. E se ignorata, rischia di spegnere l’intero motore.

In quest’ottica, l’errore non è il nemico del successo, ma la condizione per renderlo sostenibile. Rafforzare un sistema significa partire proprio da lì: da ciò che si è spezzato, da ciò che ha ceduto, da ciò che non ha funzionato come previsto. Significa imparare non solo a correggere, ma a ripensare criticamente. L’errore, quando viene accolto e analizzato, non danneggia: fortifica. Perché riporta l’attenzione su ciò che conta davvero.

Un asset, non un fardello

L’innovazione, la vera innovazione, è figlia dell’errore. Non della perfezione. L’atto creativo – in ogni ambito – nasce dal tentativo e dalla reiterazione del fallimento. Le organizzazioni che crescono davvero non sono quelle che evitano l’errore, ma quelle che sanno incorporarlo nel proprio sistema di apprendimento.

In questo senso, l’errore dovrebbe essere trattato come un asset, non come un costo. Una risorsa a valore differito, come un investimento patrimoniale: oggi può non generare vantaggio immediato, ma domani sarà il punto da cui si origina una nuova soluzione, una procedura più robusta, un pensiero più lucido.

Amazon, non a caso, inserisce tra i propri principi fondamentali il concetto di bias for action: una predisposizione all’azione che accetta l’errore come inevitabile prezzo dell’innovazione. Agire, provare, fallire, adattare. È solo in questo ciclo che il valore reale prende forma. E lo stesso vale per aziende come SpaceX: il primo lancio fallito non fu un inciampo, ma un momento fondativo, una base empirica su cui costruire una maggiore competenza ingegneristica. Era parte del processo, non una deviazione da esso.

Questo vale ovunque ci sia complessità. Dove c’è margine di scoperta, ci deve essere spazio per l’errore.

L’illusione del rischio zero

Immaginate di dire a un’organizzazione che avete scoperto il metodo per eliminare completamente ogni errore. Non mitigarlo, non gestirlo, ma rimuoverlo del tutto. La risposta non sarebbe ammirazione, ma perplessità. Se non derisione.

Eliminare l’errore significherebbe eliminare il margine d’azione, la possibilità di esplorazione, la capacità di evoluzione. Significherebbe costruire un sistema che funziona solo in condizioni ideali, un sistema statico, autoreferenziale, impermeabile al reale. E a lungo andare, sarebbe un sistema fragile.

Un sistema che non prevede l’errore è come una bolla di vetro: chiusa, brillante, apparentemente protetta. Ma basta un sassolino, anche minuscolo, per mandarla in frantumi. Una crisi esterna, un cambiamento tecnologico, un’imprevista discontinuità. La perfezione apparente non regge l’impatto del mondo, che è incerto per definizione.

L’errore come strumento relazionale

C’è però una dimensione dell’errore che raramente viene esplorata: la sua forza relazionale. Quando in un gruppo di lavoro una persona ammette un errore, non sta semplicemente dicendo “ho sbagliato”. Sta aprendo uno spazio. Sta creando un contesto in cui l’altro è legittimato a fare lo stesso.

L’errore, quando è riconosciuto e condiviso, non separa: connette. Rivela la nostra comune fallibilità. Ci ricorda che non siamo macchine, e che la nostra intelligenza – individuale e collettiva – non si misura nell’assenza di sbagli, ma nella capacità di trasformarli in comprensione.

In questo senso, l’errore favorisce un tipo di relazione autentica. Permette di incontrarsi per ciò che si è davvero, al di sotto dei ruoli, delle pose, delle maschere professionali. Quando due persone riconoscono reciprocamente la propria fallibilità, iniziano a capirsi per davvero. Non più come ruoli funzionali in un sistema, ma come esseri umani. E in questa accettazione reciproca nasce un nuovo modo di collaborare: più profondo, più onesto, più produttivo.

Le organizzazioni che accettano l’errore sono anche quelle che accettano la realtà umana del lavoro. Che smettono di chiedere performance disumane e iniziano a costruire contesti di crescita reale. Dove non si ha paura di dire “non lo so”, o “qui ho sbagliato”. Perché lì non finisce il valore di una persona. Lì comincia.

Una nuova cultura dell’errore

Serve dunque una nuova ecologia dell’errore. Un modo di pensare in cui l’errore non venga espulso, né glorificato, ma utilizzato con intelligenza. In cui gli errori siano documentati, compresi, trasformati in conoscenza operativa e relazionale. Dove l’errore sia parte integrante del ciclo vitale di un’organizzazione, e non un’interferenza da punire o da nascondere.

In un tempo dominato dalla complessità, non è il controllo assoluto che garantisce la solidità. È la capacità di assorbire l’imprevisto, di evolvere attraverso il fallimento, di imparare da ciò che non ha funzionato. È la scelta di non aver paura di sbagliare, ma di imparare a sbagliare meglio.

Perché l’errore non ci rende solo più competenti.
Ci rende più umani. E, in definitiva, più forti.

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