In Italia esiste una parola che molti continuano a usare con una naturalezza che rasenta il cinismo: gavetta. È il concetto con cui si giustifica tutto ciò che altrove sarebbe riconosciuto come sfruttamento: tirocini gratuiti, contratti precari, mansioni professionali svolte per compensi simbolici o inesistenti. Si chiama gavetta e serve a rendere rispettabile una pratica che ha solo un vantaggio: abbassare il costo del lavoro per chi assume. La gavetta non è formazione, non è crescita, non è esperienza: è sospensione del salario in cambio di una promessa vaga, differita, spesso mai mantenuta. È una forma di disciplinamento che trasforma il lavoratore giovane o non strutturato in manodopera obbediente, facilmente sostituibile, impossibilitata a reclamare riconoscimento perché considerata ancora “in fase di apprendimento”. Ma apprendimento di cosa, esattamente, se le mansioni svolte sono spesso indistinguibili da quelle dei colleghi contrattualizzati? È un’ipocrisia strutturale che attraversa interi settori: nell’editoria, nella moda, nella ristorazione, nell’architettura, nella ricerca, nella comunicazione. Lavori reali, responsabilità concrete, orari pieni — e nessun diritto. Il sistema funziona perché la retorica della gavetta protegge i datori di lavoro: li fa apparire pazienti mentori, quando in realtà sono beneficiari di forza lavoro gratuita o sottopagata. E funziona anche perché interiorizzata da molti lavoratori stessi, abituati a pensare che lamentarsi sia un atto di ingratitudine, che l’umiltà coincida con la rinuncia, che il lavoro vada “guadagnato”. Ma il lavoro si fa, non si guadagna. Si compensa. E se produce valore, quel valore va riconosciuto — subito, non fra cinque anni. La verità è che in Italia l’età è ancora usata come criterio per decidere chi merita un salario, come se la giovinezza cancellasse la fatica, la competenza, il risultato. In questo paese si può essere brillanti e invisibili per decenni, mentre altri, più inseriti o più docili, avanzano senza ostacoli. La gavetta non è il modo per imparare: è il modo per essere tenuti in un eterno preambolo, finché non si accetta la logica del sacrificio come regola. E così si spiega la frustrazione endemica di intere generazioni di lavoratori che non vedono il proprio talento trasformarsi in prospettiva, che non riescono ad emanciparsi economicamente, che emigrano o si rassegnano. Non si tratta di modernizzare il mercato, ma di smascherare un sistema che si regge su una parola rassicurante e profondamente ideologica. L’Italia non ha bisogno di conservare la gavetta come un valore culturale: ha bisogno di eliminarla come prassi economica. Se esiste una soglia minima di dignità nel lavoro, allora nessun percorso professionale dovrebbe iniziare sotto di essa. Il lavoro va pagato, sempre. La competenza va riconosciuta, non attesa. L’età non è una scusa per ignorare il contributo. Tutto il resto è retorica utile solo a chi continua a guadagnare sul tempo degli altri.