Come la teoria del pesce rosso può cambiare la tua carriera

C’è una teoria, semplice ma potentissima, che ogni tanto torna a galla nei discorsi sul lavoro, sull’ambizione, sulla crescita personale e professionale. È la teoria del pesce rosso.

Secondo questa teoria, un pesce rosso cresce solo fino a raggiungere i limiti del suo acquario. In un piccolo boccale d’acqua rimane minuscolo, in un grande stagno può diventare sorprendentemente grande. Non perché cambi la sua natura, ma perché cambiano le condizioni in cui vive.

A pensarci bene, è un’immagine che tocca qualcosa di profondamente umano. Anche noi, come quei pesci, ci sviluppiamo, impariamo, ci allarghiamo interiormente solo fino al punto in cui l’ambiente intorno a noi ce lo consente. Il lavoro, in particolare, è uno degli acquari più determinanti della nostra crescita. È lì che passiamo buona parte della nostra esistenza adulta. Ed è lì che troppo spesso restiamo piccoli non per scelta, non per incapacità, ma per mancanza di spazio intorno a noi.

Quante volte abbiamo incontrato persone straordinarie relegate in ruoli insignificanti? Intelligenze vive spente da routine meccaniche? Talenti che si sono ripiegati su se stessi perché nessuno li ha mai incoraggiati davvero ad allargare il perimetro, a nuotare oltre? In questi casi, la domanda che dovremmo porci non è “perché questa persona non cresce?”, ma piuttosto: “quale acquario la contiene? Quali sono le pareti invisibili che ne limitano la corsa?”

La cultura lavorativa dominante, spesso, è costruita su una logica che premia la prevedibilità, non il potenziale. Si cercano persone che stiano al proprio posto, non che lo ridisegnino. Si coltiva la sicurezza più che l’iniziativa. Il risultato? L’illusione di un ordine efficiente, ma il sacrificio sistematico di ciò che ogni persona potrebbe diventare se messa nelle condizioni giuste.

Certo, la narrazione motivazionale a cui siamo abituati dice il contrario: ci spinge a pensare che tutto dipenda da noi, dalla nostra forza di volontà, dalla nostra “fame”. “Se vuoi, puoi”, recitano i manifesti del successo facile. Ma è una bugia elegante. Perché la verità, più scomoda, è che anche il pesce più tenace non può oltrepassare le pareti del vetro. La volontà da sola non basta, se non trova un ambiente che la accoglie e la moltiplica.

Crescere, allora, non è solo questione di impegno. È questione di spazio. Di contesto. Di cultura. Di visione. Significa trovarsi in un ambiente che non ha paura delle dimensioni che potresti raggiungere. E questo vale tanto per i giovani che cercano un primo impiego quanto per chi, magari da anni, si sente fermo, stagnante, come se avesse smesso di espandersi. Spesso non è un problema di motivazione, ma di geometria: l’acquario ha raggiunto i suoi limiti.

E qui emerge un altro aspetto essenziale: il ruolo di chi gli acquari li progetta. Manager, leader, dirigenti, educatori: tutte quelle figure che, consapevolmente o meno, definiscono lo spazio vitale degli altri. Quanto spesso, per paura o per comodità, si preferisce mantenere piccoli gli altri? Quanto spesso si rinuncia a coltivare il potenziale perché si teme che chi cresce possa mettere in discussione le gerarchie, le abitudini, l’ordine delle cose?

Dare spazio non significa perdere potere, significa moltiplicarlo. Un bravo manager non è quello che tiene sotto controllo tutto, ma quello che fa spazio a persone più brillanti di lui e le guarda crescere. Un’organizzazione sana è quella che ha il coraggio di cambiare forma quando le persone che la abitano hanno bisogno di più acqua per nuotare.

Eppure, anche individualmente, abbiamo una responsabilità. Perché, pur non essendo colpevoli dei nostri acquari, lo siamo delle nostre permanenze. È più facile restare in ambienti conosciuti, anche se limitanti, piuttosto che affrontare il salto verso l’ignoto. Ma a volte, per crescere, bisogna avere il coraggio di cambiare acquario. Di uscire da aziende, relazioni, contesti che ci tengono compressi. Di metterci in gioco, non per diventare qualcun altro, ma per essere finalmente tutto quello che possiamo essere.

Il mondo del lavoro ha urgente bisogno di nuovi acquari: trasparenti, elastici, vivi. Dove non si cresce contro gli altri, ma insieme. Dove il talento non è una minaccia, ma una risorsa. Dove non si misura il valore di qualcuno solo da quanto occupa oggi, ma da quanto può espandersi domani.

E allora forse, in questa immagine silenziosa di un piccolo pesce rosso che nuota contro il vetro, c’è la domanda più importante che possiamo porci: sono io il problema, o è il contenitore in cui sto cercando di crescere?

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