Viviamo in un’epoca in cui la produttività è diventata una sorta di religione laica. App, agende digitali, metodi di gestione del tempo, challenge sui social: tutto sembra ruotare attorno al fare di più, in meno tempo. Ma ci siamo mai chiesti a che prezzo?
In molti ambienti di lavoro, la produttività è ormai diventata il metro assoluto per valutare valore e identità. Ma dietro l’apparente efficienza si nasconde spesso un malessere profondo. Ansia, burnout, senso di inadeguatezza. Non è un caso se sempre più persone dichiarano di sentirsi “sempre indietro”, anche dopo giornate frenetiche.
La verità è che non siamo macchine. Il nostro corpo e la nostra mente funzionano a cicli, con tempi di concentrazione, riposo e recupero. Eppure, in una società che premia la presenza costante, l’iper-connessione e l’“essere sempre sul pezzo”, prendersi una pausa viene spesso vissuto come un fallimento.
Ma essere meno produttivi non significa essere meno validi. Significa, piuttosto, riconoscere che il valore del lavoro non sta solo nella quantità, ma anche nella qualità. E che la qualità nasce, spesso, proprio nei momenti di rallentamento.
Sempre più studi dimostrano che lavorare meno ore può migliorare la salute mentale e la resa professionale. Il famoso “meno è più” non è solo uno slogan, ma una scelta concreta per tutelare il proprio benessere. Iniziative come la settimana lavorativa di quattro giorni o la “deep work” alternata a momenti di disconnessione stanno rivoluzionando il modo di intendere l’efficienza.
Ma prima di tutto, serve un cambio di sguardo: non siamo nati per essere produttivi. Siamo nati per vivere, creare, pensare, anche oziare. Ogni tanto, dovremmo darci il permesso di non ottimizzare ogni minuto, di dire “basta così” e staccare. Anche senza motivo.
Liberarsi dall’ossessione della produttività non significa smettere di lavorare bene. Significa uscire da un circolo vizioso che ci fa misurare la giornata in to-do list completate, invece che in energie conservate, idee maturate, relazioni coltivate.
Il lavoro è parte di noi, ma non può definire tutto ciò che siamo. Ogni tanto, invece di chiederci “quanto ho prodotto oggi?”, potremmo provare a chiederci “come mi sento?”. La risposta potrebbe sorprenderci.