Il declino salariale dell’Italia non è né improvviso né casuale. È il prodotto di una traiettoria precisa, iniziata negli anni Novanta e consolidata negli ultimi due decenni, in cui i sindacati hanno progressivamente abbandonato il ruolo conflittuale di rappresentanza per assumere una posizione sempre più interlocutoria, gestionale, spesso ambigua. La firma di contratti collettivi nazionali con minimi retributivi fermi a 8 o 9 euro lordi all’ora, in settori ad alta intensità di lavoro e basso margine di contrattazione individuale, è l’esito più emblematico di questa transizione. Non si tratta di un episodio isolato o di un errore tattico. È il frutto di una strategia consolidata, che ha anteposto la stabilità istituzionale alla giustizia contrattuale, e la logica della compatibilità economica alla dignità del lavoro.
Dal 1990 a oggi, l’Italia è l’unico tra i Paesi industrializzati in cui i salari reali – cioè quelli corretti per l’inflazione – sono scesi. A differenza della Germania, dove nello stesso periodo si è registrata una crescita di oltre il 30% in termini reali, o della Francia, dove i salari hanno tenuto il passo dell’aumento del costo della vita, in Italia il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti è stato progressivamente eroso. Secondo l’OCSE, il 2023 ha segnato un punto di minimo: il calo dei salari reali ha raggiunto il 7,5% rispetto all’anno precedente, la peggior performance dell’intera area OCSE. In termini nominali, lo stipendio medio annuale di un lavoratore italiano oggi si attesta intorno ai 30.000 euro lordi, ma questa cifra nasconde profonde disuguaglianze settoriali e geografiche. Nei comparti dei servizi, della logistica e del commercio al dettaglio, è tutt’altro che raro imbattersi in contratti che prevedono compensi orari inferiori ai 9 euro lordi. È qui che si annida la frattura.
La responsabilità dei sindacati in questo scenario è oggettiva e misurabile. La contrattazione collettiva, che in Italia copre circa l’80% dei lavoratori dipendenti, è uno strumento potente, ma inefficace se non accompagnato da una reale capacità negoziale. Negli ultimi dieci anni, la durata media dei rinnovi contrattuali ha superato i due anni. Il CCNL multiservizi, ad esempio, è stato rinnovato nel 2021 dopo nove anni di blocco. L’aumento salariale pattuito si è tradotto in una paga base oraria inferiore agli 8,50 euro lordi. Una cifra che, al netto di trattenute e contributi, equivale spesso a 6-6,5 euro netti per ora. È questo il livello al quale si è piegata la rappresentanza del lavoro, anche nei momenti in cui l’economia italiana mostrava segnali di ripresa.
Non si può imputare tutto alla crisi economica globale o alla stagnazione della produttività. È vero che l’Italia ha mostrato, dal 1995 in poi, un aumento di produttività tra i più bassi d’Europa – appena il 6% in trent’anni, a fronte del 25% della Francia e del 40% della Germania. Ma è altrettanto vero che i profitti aziendali, in particolare dopo il biennio pandemico, sono cresciuti in modo robusto. Secondo dati ISTAT e Banca d’Italia, il margine operativo delle grandi imprese è tornato sopra i livelli pre-COVID già nel 2022. Eppure, questa ripresa non si è mai tradotta in una redistribuzione salariale. Perché?
Perché la mediazione salariale è diventata un terreno di compromesso, non più di conflitto. Perché i sindacati hanno costruito, nel tempo, un rapporto simbiotico con le istituzioni pubbliche e con le controparti datoriali. Perché l’erosione della base lavorativa – complice l’invecchiamento della popolazione e la trasformazione dell’economia – ha spostato il baricentro interno delle confederazioni. Oggi oltre il 50% degli iscritti alla CGIL è costituito da pensionati. Nella CISL, il dato supera il 35%. Questo ha determinato una torsione dell’agenda sindacale verso la tutela dei diritti acquisiti più che verso la conquista di nuovi diritti. Ha trasformato i sindacati in agenzie di servizi, CAF, patronati, soggetti che gestiscono piuttosto che negoziare, che amministrano piuttosto che rivendicare.
Le forme di mobilitazione che si sono susseguite in questi anni lo dimostrano: cortei simbolici, scioperi brevi, proteste rituali. L’ultima stagione autunnale ha visto migliaia di lavoratori in piazza per chiedere “salari dignitosi” e difendere il potere d’acquisto, ma le piattaforme rivendicative sono rimaste spesso generiche, prive di un obiettivo numerico e operativo. Di fronte a un esecutivo che ha esplicitamente rigettato ogni proposta di salario minimo legale, i sindacati hanno risposto con dichiarazioni di principio, non con un piano di mobilitazione permanente. È il sintomo di una crisi culturale profonda, che ha reso l’idea stessa di conflitto salariale qualcosa di marginale, scomodo, e infine inutile.
Eppure, i modelli europei dimostrano che un’altra via è possibile. In Germania, il salario minimo legale ha raggiunto i 12,82 euro all’ora, senza che questo abbia compromesso la competitività dell’industria o aumentato la disoccupazione. In Francia è fissato sopra i 10 euro, in Spagna è salito progressivamente negli ultimi cinque anni fino a superare i livelli italiani. Tutti Paesi dove i sindacati hanno mantenuto – con fatica, ma con chiarezza – la centralità della questione salariale, negoziando non solo diritti normativi ma incrementi retributivi concreti. L’Italia, invece, resta inchiodata a una contrattazione moltiplicata (oltre 800 CCNL depositati, molti dei quali firmati da sigle poco rappresentative), priva di parametri minimi vincolanti, e con una giurisprudenza che raramente sanziona la pirateria contrattuale.
Non serve demonizzare i sindacati. Ma serve chiedere loro conto. La domanda che oggi si pone con urgenza – e che molti giovani lavoratori formulano con crescente disincanto – è semplice: a che cosa serve un sindacato che firma contratti da 8 euro l’ora? Se la risposta è: “a evitare il peggio”, allora il sindacato ha già perso la sua battaglia culturale. Se invece la risposta è: “a costruire il meglio possibile”, allora è tempo di cambiare strategia, linguaggio e priorità. Perché la dignità del lavoro non è compatibile con la marginalità salariale. E non può più essere sacrificata sull’altare di un’illusoria stabilità.