Italia, il lavoro che non cura: solo il 17% dei dipendenti sta bene davvero

Un dato su tutti, freddo ma definitivo: appena il 17% dei lavoratori italiani vive una condizione di benessere psicologico soddisfacente. Il resto, oltre otto persone su dieci, si muove quotidianamente tra ansia, stress, senso di inadeguatezza, fatica emotiva. È quanto emerge dalla nuova indagine realizzata dall’Università di Padova in collaborazione con Serenis, piattaforma specializzata in salute mentale, e rilanciata anche dal Corriere della Sera. Una fotografia impietosa, che mostra un mondo del lavoro stanco, disilluso e sempre più fragile.

Una crisi silenziosa, che nessuno vuole vedere

Non siamo davanti a un disagio marginale o a un’emergenza circoscritta. Si tratta, al contrario, di una crisi sistemica, che attraversa settori, territori e livelli occupazionali senza fare distinzioni. E che, peraltro, non sta ricevendo la risposta che meriterebbe. Secondo la stessa ricerca, il 57,8% dei dipendenti italiani dichiara che la propria azienda mostra una “attenzione estremamente bassa” nei confronti della salute mentale. Il dato, già di per sé allarmante, è addirittura in peggioramento rispetto a due anni fa.

Questa mancanza di risposta non è solo un problema etico. È un errore strategico. In un mercato del lavoro sempre più competitivo e interconnesso, ignorare il benessere psicologico significa mettere a rischio produttività, creatività, retention e reputazione aziendale.

Il cortocircuito: ciò che i lavoratori chiedono, ciò che le imprese non danno

I lavoratori sembrano avere le idee chiare: alla domanda “Quanto conta il benessere mentale sul lavoro?”, il 62,8% degli intervistati ha risposto assegnandogli il punteggio massimo. Questo significa che la domanda di ambienti sostenibili, umani, capaci di ascolto e rispetto, è già forte e presente. Ma la risposta delle imprese, troppo spesso, si riduce a interventi superficiali: benefit standardizzati, corsi motivazionali, abbonamenti in palestra, iniziative spot.

Non è con gadget aziendali che si affronta una crisi psicologica. Servono, invece, politiche strutturate e visione a lungo termine. Il benessere non è un premio accessorio, ma un pilastro strategico.

Tre leve per costruire un nuovo modello culturale

1. Sicurezza psicologica. Le persone lavorano meglio in ambienti dove si sentono libere di esprimersi, di chiedere aiuto, di sbagliare. Dove il confronto non è vissuto come una minaccia, ma come una risorsa. Formare i manager a riconoscere e gestire le dinamiche emotive nei team è il primo passo per costruire organizzazioni sane.

2. Tempi e spazi umani. Il diritto alla disconnessione, la flessibilità degli orari, la valorizzazione del tempo personale non sono lussi, ma elementi indispensabili per prevenire burnout e disaffezione. La produttività non cresce con l’iperconnessione, ma con la qualità del tempo lavorativo.

3. Supporto psicologico strutturato. Non più iniziative una tantum, ma programmi accessibili a tutti: sportelli di ascolto interni, convenzioni con professionisti, percorsi guidati e workshop sulla gestione dello stress, sulla comunicazione e sulla consapevolezza emotiva. Il tutto integrato nella cultura aziendale, non relegato alla dimensione privata del lavoratore.

Occuparsi di salute mentale sul lavoro non è un vezzo né una moda passeggera. È un’urgenza sociale, economica e culturale. Il rischio, altrimenti, è duplice: da un lato l’erosione del capitale umano, dall’altro una frattura crescente tra lavoratori e contesto produttivo. Un Paese che non si prende cura delle proprie persone mentre lavorano, non può sperare di costruire un futuro stabile né sostenibile.

Affrontare la questione ora significa investire su relazioni più sane, su una produttività più intelligente e su un tessuto lavorativo più resiliente. Ignorarla, ancora, sarebbe un errore che non possiamo più permetterci.

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