La lettera da un nostro lettore. “Mi hanno lasciato a casa dopo 18 anni. Ho imparato che il lavoro non può essere tutta la mia identità”.

Milano – M., 51 anni, amministrativo in una media azienda del settore servizi, non si aspettava che l’incontro con le Risorse Umane, fissato in calendario “per allineamento”, si sarebbe trasformato in un colloquio d’uscita.

«Sono rimasto seduto in silenzio. Mi dicevano parole come ‘riorganizzazione’, ‘riconversione’, ‘scivolo’… ma non sentivo niente. Solo un gran vuoto allo stomaco», racconta.

Diciotto anni passati alla stessa scrivania, tra bilanci trimestrali, fatture, ferie da conteggiare. Una carriera solida, anche se mai sotto i riflettori. Nessun ruolo dirigenziale, ma sempre presente, puntuale, affidabile. Una di quelle figure che tengono in piedi l’azienda senza clamore.

«Pensavo che bastasse fare bene il mio lavoro. Non avevo ambizioni di carriera, non cercavo aumenti o visibilità. Ma quando sono iniziati i tagli, sono finito nel mucchio anch’io. Senza proteste, senza spiegazioni vere. Una firma, un incentivo all’esodo, e fuori.»

Il vuoto dopo l’ufficio

Per settimane, M. non è riuscito a dirlo ad alta voce: “Sono stato licenziato”.
«Usavo formule strane: “in transizione”, “in attesa”, “mi sto guardando intorno”. Mi vergognavo. Perché nella nostra società, se non lavori, sembri automaticamente una persona inutile.»

In un mercato del lavoro che cambia velocemente – e spesso senza preavviso – molti lavoratori ultracinquantenni si trovano nella stessa situazione di Marco: fuori dal giro, troppo esperti per i ruoli junior, troppo “vecchi” per le aziende in cerca di profili flessibili e giovani.

Una nuova quotidianità

Dopo i primi mesi di stallo, Marco ha iniziato a muoversi. Ha aperto una partita IVA, lavora saltuariamente come supporto contabile per una cooperativa e un piccolo studio. Non è una “rinascita” nel senso tradizionale del termine. È qualcosa di più sottile: un nuovo equilibrio.

«Ho meno soldi, ma più tempo. Leggo, cucino, vado con mio padre alle visite. Non è quello che avevo immaginato, ma non mi sento più a pezzi. Anzi, a volte penso di essere diventato più lucido su ciò che conta davvero.»

Oggi non parla più di “fallimento”. Ma di identità.

«Per troppo tempo ho creduto di coincidere col mio lavoro. Quando è finito, ho scoperto che ero anche altro. E che c’è vita, e dignità, anche dopo una lettera di licenziamento.»

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