L’assurda mentalità lavorativa italiana che dobbiamo cambiare.

In Italia, la linea tra impegno professionale e sfruttamento si sta progressivamente assottigliando. Lavorare oltre l’orario contrattuale senza compenso, evitare di ammalarsi per non compromettere la propria reputazione, sentirsi in colpa quando si usa un giorno di malattia: questi fenomeni, ben documentati da recenti indagini sul mondo del lavoro, non riflettono un’autentica dedizione, ma una cultura organizzativa che rischia di diventare tossica.

Il punto è complesso e merita un’analisi che eviti facili stereotipi o generalizzazioni. È vero che la nostra legislazione sul lavoro ha previsto tutele significative in termini di orario e salute, ma nella pratica molte aziende italiane mostrano difficoltà nell’applicarle correttamente, spesso per motivi legati a dinamiche di controllo, cultura aziendale e strutture organizzative poco moderne.

Una recente indagine condotta dall’Osservatorio del Politecnico di Milano sul fenomeno del lavoro “in nero” e “in grigio” ha evidenziato come circa il 20% dei lavoratori dipendenti effettui regolarmente straordinari non riconosciuti. Inoltre, una ricerca dell’INPS ha confermato un aumento delle assenze per malattia considerate “incompatibili” con la cultura aziendale, cioè vissute come un segnale di scarsa affidabilità. Questa percezione, sebbene difficile da quantificare nei numeri, è palpabile nei sondaggi qualitativi e nelle testimonianze raccolte tra professionisti di settori differenti.

Dietro questo quadro non c’è solo un problema di diritti violati, ma un malfunzionamento più profondo: la cultura organizzativa che valorizza la presenza fisica e la disponibilità costante, più che la produttività effettiva. In molti contesti, “essere presente” è ancora sinonimo di “essere valido”, indipendentemente dalla qualità del lavoro svolto.

Questo atteggiamento produce una serie di effetti negativi, documentati dalla letteratura sul benessere lavorativo: aumento dello stress, riduzione della motivazione, maggior rischio di burnout. Dal punto di vista economico, la correlazione tra lunghe ore non remunerate e calo della produttività è ormai accertata da studi internazionali. Pertanto, la cultura del “fare sempre di più” non è solo insostenibile, ma controproducente.

Per affrontare questa situazione serve un approccio multilivello e pragmatico. In primis, investire in sistemi di gestione del lavoro basati su obiettivi chiari e misurabili, spostando il focus dall’orario di presenza alla qualità dei risultati. Ma soprattutto occorre un cambiamento culturale profondo, che deve partire nelle scuole.

È infatti nella formazione dei più giovani che si gioca una partita cruciale, perché è lì che si possono instillare nuove idee di lavoro, benessere e produttività. Occorre ripensare l’educazione al lavoro non come semplice apprendimento tecnico o preparazione professionale, ma come un percorso che valorizzi la consapevolezza dei propri limiti, l’importanza della qualità rispetto alla quantità e il rispetto per la propria salute psicofisica. Solo insegnando fin dall’infanzia che la dedizione non è sinonimo di sacrificio a oltranza, ma piuttosto di equilibrio e responsabilità, si potrà sperare di interrompere il circolo vizioso di una cultura lavorativa che considera la malattia o il bisogno di pause come debolezza o mancanza di impegno. Questo cambiamento culturale, che deve attraversare tutte le fasi della formazione e del percorso lavorativo, è la vera chiave per costruire ambienti di lavoro sostenibili, dove la produttività e il benessere individuale non siano più visti come elementi in contrapposizione, ma come parti integranti di un sistema virtuoso.

PH credit: Louis Quail

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