In molte aziende italiane, piccole o grandi, private o pubbliche, spegnere il telefono durante le ferie è ancora visto come un comportamento al limite della negligenza. Nonostante i contratti collettivi parlino chiaro, e nonostante la normativa sul diritto alla disconnessione sia stata rafforzata anche dal lavoro da remoto, la cultura del “sempre reperibile” resta profondamente radicata.
Succede ogni estate. Mentre qualcuno parte per le vacanze, l’altro — il collega che resta — sbuffa, commenta, invia comunque messaggi “al volo” con richieste più o meno urgenti. A volte è una mail, a volte una telefonata. Sempre accompagnata dalla premessa: “So che sei in ferie, ma…”. Come se bastasse quel “ma” a rendere la richiesta legittima.
La verità è che in molte realtà lavorative italiane non esiste una vera cultura della sostituzione. Le mansioni sono spesso costruite attorno alla singola persona, non ai ruoli. Le responsabilità non sono condivise, le informazioni non circolano. Così, ogni assenza — anche breve, anche programmata — diventa una potenziale falla operativa.
Non è una questione di cattiva volontà. Spesso è solo cattiva organizzazione. Pianificare davvero le ferie significa preparare il contesto a funzionare anche in assenza di una risorsa. Significa redistribuire temporaneamente i compiti, prevedere dei sostituti, comunicare con chiarezza. Tutte cose che richiedono tempo, metodo, attenzione. Ma che, troppo spesso, vengono saltate in nome dell’urgenza continua.
Il risultato è una tensione latente: da un lato, chi va in ferie e cerca di “non farsi sentire troppo”; dall’altro, chi resta e si sente autorizzato a “disturbare solo per un attimo”. Nessuno dei due ha torto, ma entrambi sono vittime di un sistema che fatica a rispettare il tempo degli altri.
Eppure, l’assenza è parte del lavoro tanto quanto la presenza. Lo è per ragioni legali — le ferie sono un diritto — ma anche per motivi pratici. Nessuno può essere lucido e produttivo senza pause reali. Staccare davvero, anche dal telefono, è fondamentale. Non solo per recuperare energie, ma per rientrare con lucidità. Chi lavora senza interruzioni diventa meno efficace, più esposto a errori, più fragile nelle relazioni interne.
Nel 2021, con l’esplosione del lavoro da remoto, la legge 81/2017 è stata aggiornata per rafforzare il “diritto alla disconnessione”. Ma la legge, da sola, non basta. Serve una cultura condivisa. Serve che i manager non scrivano email notturne aspettandosi risposte. Serve che i colleghi non chiamino chi è in ferie perché “è solo un minuto”. Serve che le aziende non lodino chi “non si stacca mai”, come fosse un merito.
In un paese che fatica a usare fino in fondo i giorni di ferie maturati — e in cui la produttività resta stagnante — la vera modernizzazione passa anche da qui: saper rispettare il tempo degli altri. Lasciarli in pace. Fidarsi del fatto che il lavoro non crolla se una persona si assenta per una settimana. Anzi, se crolla, il problema non è chi va in ferie. È il sistema.
Non servono gesti eclatanti. Basterebbe normalizzare ciò che dovrebbe essere ovvio: in ferie non si lavora. E non ci si aspetta che gli altri lo facciano.